martedì 7 dicembre 2010

La ricerca è arte


Manuela Pellegrini, giovane ricercatrice di Tor Vergata e dell’AIRC con un passato negli States, ha tenuto pochi giorni fa un interessante intervento presso il Maxxi di Roma. Seguito e apprezzato dai ragazzi, il discorso della ricercatrice è stato incentrato sul parallelismo tra arte e ricerca. La dottoressa è titolare di un My First Airc Grant, conferito dall’associazione ai nuovi talenti.

D: Il ricercatore: più un lavoro o più una vocazione?
R: Diverse sono le motivazioni personali che possono spingere alla professione del ricercatore (curiosità, attitudini e interessi personali, scopi umanitari, casualità) ma in ultima analisi per tutti noi diventa una passione ed una missione.

D: Quale la molla che l’ha portata a scegliere questa vita? Se potesse tornare indietro intraprenderebbe la stessa carriera?
R: In due parole ho fatto una scelta che predilige il verbo “essere” piuttosto che quello“avere”. Come accennavo prima, ho iniziato questa carriera perche volevo studiare il comportamento degli animali in natura, solo in seguito ho scoperto l’incredibile fascino della biologia molecolare e la possibilità che si ha di utilizzarla per un bene collettivo. Se nel passato ho avuto diversi dubbi sulla carriera intrapresa, man mano che le difficoltà vengono superate sono felice di non aver abbandonato il mondo della ricerca, inoltre le scoperte fatte, le soddisfazioni personali e le persone conosciute in questi anni ripagano di gran lunga tutti i sacrifici.

D: Quali sono le differenze più profonde che lei, come donna prima e come ricercatore poi, ha riscontrato tra l’Italia e l’America? E perché è tornata in Italia?
R: Come donna di scienza non ho mai provato discriminazione durante il periodo trascorso all’NIH negli Stati Uniti ed ho sempre avuto l’impressione di essere ascoltata per contribuire con punti di vista diversi alla ricerca del laboratorio in cui lavoravo. In Italia purtroppo è un’altra storia, ancora nel mondo accademico è diffuso un certo”maschilismo” e inoltre l’organizzazione del lavoro non è tale da permetterne la conciliazione, per esempio, con la maternità. Un problema di organizzazione ed efficienza si avverte anche nel fare ricerca molto spesso per mancanza di comunicazione e condivisione delle risorse fra i vari dipartimenti. Un aspetto che a me personalmente ha fatto molto maturare quando ho lavorato all’estero è stata la possibilità di confrontarmi in modo paritetico con capi di laboratorio e dipartimento che sicuramente avevano un’esperienza molto maggiore della mia, senza che mi fosse minimamente fatta pesare la loro carica. Purtroppo questo accade molto raramente nelle Università italiane. Sono tornata perché sono cresciuta con il mito di Ulisse descritto nell’Odissea. Occorre partire per conoscere e poi usare questa conoscenza per capire se stessi (le proprie potenzialità e i propri limiti) e diventare fiduciosi del proprio operato, ma è altrettanto importante tornare, specialmente per noi italiani che sentiamo e sappiamo il valore della nostalgia (nostos-ritorno algos-algos) per un paese che al momento è da “curare” ma che con la sua storia antica e la sua cultura ci ha reso unici nel mondo. In fondo sono tornata anche con la speranza di contribuire a curare.

D: Quali sono, secondo lei, i settori di punta della ricerca di oggi?
R: Fare una distinzione tra un campo di ricerca e l’altro non è possibile. Non possiamo credere, ad esempio, che la ricerca sull’HIV possa essere più o meno importante della ricerca sul cancro o viceversa. Credo che tutta la ricerca di base debba essere supportata.

D: Parliamo dell’incontro che si è tenuto al Maxxi di Roma. Era la prima volta che parlava ad un pubblico di giovani? Più o meno emozionante rispetto al presentare uno studio ad un gruppo di addetti ai lavori?
R: Ho fatto qualche lezione a studenti universitari in passato, ma era la prima volta che parlavo con ragazzi delle scuole superiori. Non è stato un intervento di tipo tecnico ma ho parlato della mia esperienza di crescita e del lavoro del ricercatore e mi sono emozionata molto nel cercare di trasmettere la passione e le emozioni che provo per il mio lavoro. In questo senso è stata quindi un’esperienza unica che rimarrà nei miei migliori ricordi.

D: Ricerca e arte. Per quale motivo creare questo binomio? Cosa vuol dire “il ricercatore è molto simile ad un artista”?
R: Un ricercatore come un artista deve essere libero di esprimersi, devono entrambi saper vedere le cose da punti di vista diversi, devono inoltre usare le conoscenze passate per esplorare nuove dimensioni ed infine entrambi lavorano per la collettività, il ricercatore per il benessere corporeo, l’artista per quello spirituale.

D: Parliamo di ricerca, etica, bioetica e morale. Ci dovrebbero essere dei limiti? Se sì, in quale modo e momento andrebbero imposti? E da chi?
R: Io cerco di fare il mio lavoro avendo sempre davanti la versione laica del trinomio “fede, speranza e carità”. Non credo che il fine giustifichi i mezzi, occorre sempre agire con coscienza, giustizia e compassione. Almeno questo ho sempre apprezzato nelle persone che mi hanno fatto da guida.

D: Da dove partire per impiantare basi solide per il futuro della ricerca? Come migliorarne la qualità e assistere finalmente all’agognato “rientro dei cervelli”?
R: Prima di tutto occorrerebbe convincere coloro che hanno la possibilità di sostenere la ricerca che ricerca è sinonimo di futuro e gli italiani più che mai in questo periodo storico hanno bisogno di vedere un futuro. Avere più investimenti in ricerca permetterà inoltre di creare più posti di lavoro e favorire meritocraticamente il rientro dei ricercatori che si sono specializzati all’estero. Credo che questi siano i presupposti per lo stabilirsi di un feedback positivo che sicuramente porterà al miglioramento della ricerca e all’ampliamento delle nostre conoscenze.

Fonte: emagazine.torvergata.it

Nessun commento:

Posta un commento