martedì 18 gennaio 2011

Il pollo gm fermerà H5N1


Un pollo gm incapace di trasmettere il virus dell'influenza aviaria. A modificarlo sono stati i ricercatori dell'Università di Cambridge e di Edimburgo (Regno Unito), che mostrano i risultati del loro studio su Science. Secondo gli studiosi britannici, la creazione di un pollo immune alla trasmissione virale potrebbe aiutare a contenere il rischio di nuove epidemie tra i volatili e, indirettamente, anche nella popolazione umana.

L'influenza aviaria, di cui abbiamo spesso sentito parlare negli ultimi anni, colpisce comunemente i volatili selvatici e, occasionalmente, può interessare anche gli allevamenti di pollami. Qui, date condizioni in cui vivono gli animali (la vicinanza delle gabbie, per esempio), il patogeno può diffondersi molto velocemente.

Il pollo modificato nel Regno Unito, invece, sembra riuscire a bloccare il virus H5N1 HPAI, un sottotipo dell'agente responsabile dell'influenza aviaria particolarmente pericoloso. Per ottenere questo risultato, gli studiosi hanno inserito nel Dna dei volatili un gene che codifica per un Rna “decoy”, una molecola che agisce come un'esca: inganna il sistema di replicazione del virus, impedendone il corretto funzionamento. Come conseguenza, un pollo che viene infettato dal virus sviluppa l'influenza e muore, ma non riesce a trasmettere la malattia agli altri volatili con cui viene in contatto, siano essi transgenici o meno. L'"esca", inoltre, è pensata per funzionare contro tutti i ceppi patogeni di influenza aviaria.

“La modifica genetica che abbiamo inserito nei polli è un primo passo verso lo sviluppo di animali che siano completamente resistenti all'influenza aviaria” ha dichiarato Laurence Tiley dell'Università di Cambridge, uno degli autori: “Prevenire la trasmissione del virus aiuterebbe a ridurre l'impatto economico della malattia e il rischio per l'essere umano. Anche se, è bene ricordarlo, gli animali gm sono destinati esclusivamente alla ricerca e non al consumo alimentare”.

Fonte: www.galileonet.it/articles

martedì 11 gennaio 2011

Catturate dai satelliti le prime immagini delle baby stelle della galassia di Andromeda


Le prime immagini delle stelle che si stanno formando adesso nella galassia di Andromeda, la più vicina alla Terra, sono state catturate dai satelliti dell'Agenzia Spaziale Europea (Esa) Herschel e Xmm-Newton.

Riprese nei giorni attorno a Natale, sono le prime immagini che vedono Andromeda ai raggi X e nell'infrarosso, "colorando" di rosso, arancio e giallo i dischi di materia della sua spirale. Gli stessi che nell'osservazioni ottiche appaiono di un azzurro che diventa sempre più sfumato e debole procedendo dall'interno verso l'esterno.

Nelle immagini all'infrarosso inviate a Terra dal satellite Herschel le centinaia di miliardi di stelle di Andromeda appaiono molto brillanti e, soprattutto, risultano essere molto più numerose di quanto si immaginasse. Nelle nubi di polveri fredde si trovano veri e propri incubatori di stelle in formazione, spie di un processo che potrebbe durare centinaia di milioni di anni.

Tanto è il tempo necessario prima che una stella raggiunga un'intensità tale da renderla visibile ai tradizionali telescopi. Per la prima volta, inoltre, le immagini del telescopio Herschel mostrano che le polveri della galassia sono organizzate in almeno cinque anelli concentrici.

Fonte: notizie.tiscali.it/articoli/scienza/

mercoledì 5 gennaio 2011

Sei di destra o di sinistra? Lo determinano le aree del cervello


E’ nato tutto da una battuta dell'attore britannico Colin Firth: sostenitore pentito dei Liberal Democratici, il protagonista di King's Speech aveva detto alla Bbc che al loro capo Nick Clegg "bisognerebbe scannerizzargli il cervello".

Un neuroscienziato lo ha preso in parola: ha esaminato la massa grigia di due membri del Parlamento e di 90 studenti concludendo che il cervello di chi tende ad appoggiare un partito conservatore è diverso da quello di chi invece la pensa a sinistra. Campagne elettorali, poster e dibattiti in televisione sarebbero dunque inutili a far cambiare bandiera a un individuo, in quanto le convinzioni politiche sono determinate dallo sviluppo cerebrale molto più che dalla passione, ha concluso Geraint Reese, direttore dell'Institute of Cognitive Neeuroscience dell'University College London (UCL).

Rees ha constatato una "forte correlazione" tra lo spessore di due aree di materia grigia, l'amigdala e il cingolo anteriore, e le convinzioni politiche della persona. Le "cavie", che includevano i parlamentari laburista Stephen Pound e il Tory Alan Duncan, avevano tutti decise opinioni politiche. Chi di loro la pensava più a destra aveva la amigdala maggiormente sviluppata, mentre le idee di sinistra erano legate a un cingolo anteriore più spesso. L'amigdala, un'area a mandorla nel centro del cervello, è normalmente associata a sentimenti come l'ansia e altre emozioni forti, mentre l'area del cingolo anteriore sarebbe responsabile di qualità come il coraggio, l'ottimismo e la capacità di risolvere situazioni complesse in cui i dati a disposizione contrastano gli uni con gli altri.

L'esame dei cervelli di Pound e Duncan ha confermato la tesi: lo 'scan' dell'uomo del Labour ha rivelato un cingolo anteriore più spesso di quello del Tory mentre in entrambi i parlamentari l'amigdala aveva dimensioni paragonabili. "Siamo rimasti davvero sorpresi", ha detto Rees: "E' la prova che le nostre tendenze politiche sono codificate nella struttura del cervello, oppure che c'é qualcosa nel nostro cervello che determina le nostre tendenze politiche". Resta da capire, dal momento che le cavie erano tutti adulti, se l'ispessimento delle aree 'politiche' del cervello fosse lì dalla nascita o si sia sviluppato diversamente col passare degli anni.

La ricerca, che sarà pubblicata il prossimo anno ma di cui danno notizia i media britannici, avvalora precedenti studi dell'Università di California secondo cui alcune persone sarebbero nate con un 'gene progressista', il neurotrasmettitore DRD4, che li rende più inclini ad abbracciare posizioni meno convenzionali. Altri scienziati avevano però invitato a prendere con le molle questi risultati: il quadro che ne emerge descrive infatti l'uomo-conservatore come "ottuso" e "amante della routine" mentre il suo corrispettivo progressista come "aperto" e dallo "spirito libero”.

Fonte: notizie.tiscali.it/articoli/scienza

venerdì 17 dicembre 2010

Non solo alla salute: smettere di fumare fa bene anche all'umore


Non solo è salutare per l'organismo: smettere di fumare migliora anche il benessere dell'umore. A sostenerlo è uno studio pubblicato sulla rivista Nicotine & Tobacco Research dai ricercatori della Brown University e della University of Southern California guidati da Christopher Kahler.

Dallo studio emerge che, nonostante chi ha il vizio del fumo tenda ad accendere una sigaretta ogni volta che deve 'scaricare' ansia e nervosismo, gli effetti benefici per l'umore arriverebbero invece proprio dal comportamento contrario, cioè dall'interrompere il consumo delle "bionde".

I ricercatori hanno monitorato i sintomi della depressione in 236 persone che cercavano di chiudere col vizio delle sigarette, e hanno scoperto che il momento di massima felicità si raggiungeva proprio quando riuscivano a chiudere definitivamente con le sigarette.

"L'ipotesi è che alcune persone fumano perché il fumo ha proprietà antidepressive - spiega Kahler -. Ciò che sorprende è che, nel momento in cui si misura l'umore dei fumatori, si riscontrano miglioramenti nello stato d'animo anche se sono riusciti a smettere solo per un breve periodo".

Fonte: notizie.tiscali.it/articoli/scienza

martedì 7 dicembre 2010

La ricerca è arte


Manuela Pellegrini, giovane ricercatrice di Tor Vergata e dell’AIRC con un passato negli States, ha tenuto pochi giorni fa un interessante intervento presso il Maxxi di Roma. Seguito e apprezzato dai ragazzi, il discorso della ricercatrice è stato incentrato sul parallelismo tra arte e ricerca. La dottoressa è titolare di un My First Airc Grant, conferito dall’associazione ai nuovi talenti.

D: Il ricercatore: più un lavoro o più una vocazione?
R: Diverse sono le motivazioni personali che possono spingere alla professione del ricercatore (curiosità, attitudini e interessi personali, scopi umanitari, casualità) ma in ultima analisi per tutti noi diventa una passione ed una missione.

D: Quale la molla che l’ha portata a scegliere questa vita? Se potesse tornare indietro intraprenderebbe la stessa carriera?
R: In due parole ho fatto una scelta che predilige il verbo “essere” piuttosto che quello“avere”. Come accennavo prima, ho iniziato questa carriera perche volevo studiare il comportamento degli animali in natura, solo in seguito ho scoperto l’incredibile fascino della biologia molecolare e la possibilità che si ha di utilizzarla per un bene collettivo. Se nel passato ho avuto diversi dubbi sulla carriera intrapresa, man mano che le difficoltà vengono superate sono felice di non aver abbandonato il mondo della ricerca, inoltre le scoperte fatte, le soddisfazioni personali e le persone conosciute in questi anni ripagano di gran lunga tutti i sacrifici.

D: Quali sono le differenze più profonde che lei, come donna prima e come ricercatore poi, ha riscontrato tra l’Italia e l’America? E perché è tornata in Italia?
R: Come donna di scienza non ho mai provato discriminazione durante il periodo trascorso all’NIH negli Stati Uniti ed ho sempre avuto l’impressione di essere ascoltata per contribuire con punti di vista diversi alla ricerca del laboratorio in cui lavoravo. In Italia purtroppo è un’altra storia, ancora nel mondo accademico è diffuso un certo”maschilismo” e inoltre l’organizzazione del lavoro non è tale da permetterne la conciliazione, per esempio, con la maternità. Un problema di organizzazione ed efficienza si avverte anche nel fare ricerca molto spesso per mancanza di comunicazione e condivisione delle risorse fra i vari dipartimenti. Un aspetto che a me personalmente ha fatto molto maturare quando ho lavorato all’estero è stata la possibilità di confrontarmi in modo paritetico con capi di laboratorio e dipartimento che sicuramente avevano un’esperienza molto maggiore della mia, senza che mi fosse minimamente fatta pesare la loro carica. Purtroppo questo accade molto raramente nelle Università italiane. Sono tornata perché sono cresciuta con il mito di Ulisse descritto nell’Odissea. Occorre partire per conoscere e poi usare questa conoscenza per capire se stessi (le proprie potenzialità e i propri limiti) e diventare fiduciosi del proprio operato, ma è altrettanto importante tornare, specialmente per noi italiani che sentiamo e sappiamo il valore della nostalgia (nostos-ritorno algos-algos) per un paese che al momento è da “curare” ma che con la sua storia antica e la sua cultura ci ha reso unici nel mondo. In fondo sono tornata anche con la speranza di contribuire a curare.

D: Quali sono, secondo lei, i settori di punta della ricerca di oggi?
R: Fare una distinzione tra un campo di ricerca e l’altro non è possibile. Non possiamo credere, ad esempio, che la ricerca sull’HIV possa essere più o meno importante della ricerca sul cancro o viceversa. Credo che tutta la ricerca di base debba essere supportata.

D: Parliamo dell’incontro che si è tenuto al Maxxi di Roma. Era la prima volta che parlava ad un pubblico di giovani? Più o meno emozionante rispetto al presentare uno studio ad un gruppo di addetti ai lavori?
R: Ho fatto qualche lezione a studenti universitari in passato, ma era la prima volta che parlavo con ragazzi delle scuole superiori. Non è stato un intervento di tipo tecnico ma ho parlato della mia esperienza di crescita e del lavoro del ricercatore e mi sono emozionata molto nel cercare di trasmettere la passione e le emozioni che provo per il mio lavoro. In questo senso è stata quindi un’esperienza unica che rimarrà nei miei migliori ricordi.

D: Ricerca e arte. Per quale motivo creare questo binomio? Cosa vuol dire “il ricercatore è molto simile ad un artista”?
R: Un ricercatore come un artista deve essere libero di esprimersi, devono entrambi saper vedere le cose da punti di vista diversi, devono inoltre usare le conoscenze passate per esplorare nuove dimensioni ed infine entrambi lavorano per la collettività, il ricercatore per il benessere corporeo, l’artista per quello spirituale.

D: Parliamo di ricerca, etica, bioetica e morale. Ci dovrebbero essere dei limiti? Se sì, in quale modo e momento andrebbero imposti? E da chi?
R: Io cerco di fare il mio lavoro avendo sempre davanti la versione laica del trinomio “fede, speranza e carità”. Non credo che il fine giustifichi i mezzi, occorre sempre agire con coscienza, giustizia e compassione. Almeno questo ho sempre apprezzato nelle persone che mi hanno fatto da guida.

D: Da dove partire per impiantare basi solide per il futuro della ricerca? Come migliorarne la qualità e assistere finalmente all’agognato “rientro dei cervelli”?
R: Prima di tutto occorrerebbe convincere coloro che hanno la possibilità di sostenere la ricerca che ricerca è sinonimo di futuro e gli italiani più che mai in questo periodo storico hanno bisogno di vedere un futuro. Avere più investimenti in ricerca permetterà inoltre di creare più posti di lavoro e favorire meritocraticamente il rientro dei ricercatori che si sono specializzati all’estero. Credo che questi siano i presupposti per lo stabilirsi di un feedback positivo che sicuramente porterà al miglioramento della ricerca e all’ampliamento delle nostre conoscenze.

Fonte: emagazine.torvergata.it

venerdì 3 dicembre 2010

Scoperto batterio che si nutre di arsenico


È stato scoperto un batterio «alieno» che si nutre di arsenico. Alieno non nel senso che proviene dallo spazio, ma che basa il suo metabolismo non su ossigeno, idrogeno, azoto, fosforo, carbonio e zolfo come tutti gli altri esseri viventi di questo pianeta, ma su un elemento che è velenoso per la vita nel suo complesso. Il batterio è il ceppo GFAJ-1 della famiglia Halomonadaceae della classe Gamma Proteobacteria che vive sui fondali del Mono Lake, un lago in California ai confine del Parco Yosemite, noto per le sue acque estremamente alcaline (pH 10) che contengono alte percentuali di arsenico e sali che si depositano formando affascinanti concrezioni di travertino che localmente sono chiamati tufi, anche se geologicamente non lo sono.

Il batterio è stato modificato in un laboratorio dell'Istituto di astrobiologia della Arizona State University ordinato da Felisa Wolfe-Simon, grazie a una ricerca finanziata dalla Nasa e pubblicata giovedì su Science. Ora la vita del batterio dipende completamente da un veleno come l'arsenico. L'esistenza di un simile microrganismo è la dimostrazione che la vita può esistere in forme molto diverse da quelle che conosciamo: un dato del quale non potranno non tenere conto tutti i programmi spaziali impegnati nella ricerca di esseri viventi in altri pianeti. «La grande novità è che l'arsenico è utililzzato come blocco di costruzione per un organismo», ha sottolineato il professor Ariel Anbar, co-autore dello studio. I ricercatori hanno coltivato in laboratorio alcuni batteri rinvenuti nel fango del Mono Lake con alti livelli di arsenico. Un po' per volta i biologi hanno aumentato la quantità di arsenico nel terreno di coltura dei batteri, fino a rendere i microrganismi completamente dipendenti da quell'elemento. Che i batteri siano riusciti a sopravvivere è stata una sorpresa per gli stessi ricercatori. I batteri del ceppo GFAJ-1 sono oggi l'unica forma di vita finora nota nella quale una sostanza tossica come l'arsenico sostituisce completamente il fosfato, indispensabile alle funzioni vitali di tutte le forme di vita conosciute. Il fosfato è infatti alla base delle molecole di tutte le cellule.

Fonte: www.corriere.it/scienze_e_tecnologie

martedì 23 novembre 2010

Il superbatterio New Delhi fa tremare il mondo: inefficaci gli antibiotici


E' allerta anche in Italia per il superbatterio "New Delhi", resistente alla quasi totalità degli antibiotici oggi conosciuti: due casi di contagio sono stati infatti registrati nel nostro Paese. A darne notizia è stato il direttore del dipartimento malattie infettive dell'Istituto superiore di Sanità (Iss), Giovanni Rezza, a margine della presentazione della Campagna “Antibiotici, difendi la tua difesa. Usali con cautela”. Il superbatterio, originario dell'India, è comparso anche in Europa (Regno Unito, Francia, Svezia, Olanda) e Stati Uniti. E' resistente alla maggior parte degli antibiotici e nessun nuovo antibiotico in sviluppo risulta minimamente efficace contro questo microrganismo, anche noto come NDM-1.

''La comparsa del superbatterio in Gran Bretagna - ha spiegato Rezza - è in parte anche dovuta ad un fenomeno di 'delocalizzazione' degli interventi chirurgici, per cui si effettuano in India interventi ad esempio di chirurgia estetica molto costosi in Gran Bretagna''. In Italia, ha reso noto l'esperto, ''si registrano solo un paio di casi di contagio, in persone di ritorno da viaggi all'estero, e non c'è ancora una vera diffusione del superbatterio, che può provocare polmoniti, setticemie ed infezioni''. C'è però, ha concluso Rezza, ''una situazione di allerta ed il fenomeno è costantemente monitorato''.

Nonostante l’attenzione verso questo superbatterio debba restare alta, Rezza si dice preoccupato dal fatto che si stia abbassando la guardia nei confronti di altri microrganismi resistenti: “Ci sono altri batteri che sono resistenti alle stesse classi di antibiotici di NDM-1 che circolano nel nostro Paese, ormai questo è un problema grave soprattutto per i batteri gram negativi, anche perché queste infezioni circolano in reparti come le terapie intensive, dove i pazienti sono già debilitati da altre malattie gravi”.

I mezzi per difendersi da questi superbatteri sono ormai pochi: “L'ultimo baluardo è rappresentato dalla colistina (con fortissimi effetti collaterali, ndr) - sottolinea il professore - ma nei casi in cui non funziona il problema diventa grave. C'è una mancanza di ricerca e sviluppo in questo campo, evidentemente la resa economica non è ottimale rapportata agli investimenti necessari, quindi le scoperte di nuovi farmaci segnano il passo”.

Con il nome di NDM-1 si definisce un gene in grado di "saltare" tra diversi batteri, conferendo una importante resistenza anche ai carbapenemi, classe di antibiotici considerata l'ultimo baluardo contro i microrganismi più pericolosi. In tutto il Vecchio Continente sono stati segnalati casi in 13 Paesi, ha detto Dominique Monnet del Centro Europeo di Controllo e prevenzione delle Malattie (Ecdc). “Fino ad oggi - ha evidenziato la ricercatrice - sono stati segnalati 77 casi di infezione da NDM-1 in tutta Europa -. Sono stati colpiti 13 Paesi, tra cui Francia, Italia, Germania e Spagna, e ci sono stati sette morti. Due terzi dei casi si sono verificati in Gran Bretagna e la maggior parte è associata a cure mediche o a viaggi nel subcontinente indiano, anche se una piccola parte deriva da un focolaio sviluppato nei Balcani”.

Fonte: notizie.tiscali.it/articoli/scienza/